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PROLOGO

 

Quando entrò nel locale, si guardò intorno, colpita dalla marea emotiva. È sempre così, pensò; tutti sono posseduti da sensazioni vivide. Persino in una sera piovosa come questa. Ad ogni incontro, concluse, c’è la pioggia, accompagnata da sogni di alcol e fumo. Anche stavolta non ci saranno eccezioni, si disse. Ma qualcosa la confondeva. Non era colpa dell’umidità. E, tornando indietro con i ricordi, nemmeno il gatto nero intravisto in un vicolo buio era responsabile. Certo, c’era la luce fosforescente nelle pupille; ma non era una novità: il riverbero della conoscenza brilla in continuazione negli occhi dei felini, creature eleganti, dai movimenti flessuosi, in grado di percepire realtà invisibili. O era stato il vecchio a incuriosirla, con la barba lunga, l’abito logoro e lo sguardo smarrito? Le aveva rivolto la parola, farfugliando frasi incomprensibili. C’era pure stata la signora di mezza età, con la borsa della spesa in mano, che parlava da sola, di contrarietà, probabilmente. E i due giovani, forse amici, forse amanti, forse niente di tutto questo. Si fissavano con freddezza. Lui era bello, con i capelli lunghi e biondi sciolti sulle spalle. Lei non era da meno, con il viso dai lineamenti regolari, lo sguardo intenso e la fluente chioma bruna. Magari c’era stata una lite, ipotizzò. Aveva sentito la tensione elettrica tra loro, rabbrividendo eccitata. Si era trattato di un brivido piacevole, comunque; ma non tanto da confonderla. È questa città, pensò, guardando l’interno del bar e le persone, ognuna con una storia e una vita peculiari. E, ovviamente, un sogno individuale.

Non c’era molta gente. E’ presto, decise. E poi non importava. Aveva tutta la notte a disposizione. Loro sceglievano locali che rimanevano aperti fino all’alba. Perché, quando le storie incominciavano, era preferibile non avere seccature. Non essere tediati da qualcuno che diceva, mi dispiace, signori, ma adesso è tardi, bisogna chiudere. Sì, sarebbe bastato un pensiero e chiunque si sarebbe messo a tacere. Un cameriere o un barista non avrebbero costituito un problema. Ma lei era in incognito. E pure lui.

E a proposito di lui…

Dov’era?

Esaminò la sala. I tavolini non erano tutti occupati. C’erano solo alcune coppiette anonime. In un angolo appartato, un uomo anziano guardava fuori dalla finestra. La pioggia cadeva sul vetro e trasformava il paesaggio esterno in un mondo urbano tremolante e ondeggiante, un quadro impressionista di luci al neon, fari di automobile e figure umanoidi, simili ad ombre cinesi. Dietro il bancone, un tipo dai capelli scuri e lo sguardo fiero la osservava insistente. Non era male. Tre uomini sulla quarantina sedevano al bancone. Bevevano in silenzio e aspettavano. Senz’altro donne. Avevano il tipico aspetto dei single in cerca di compagnia. Anche loro la guardarono, ammirati. Sapeva di essere bella. E gli sguardi di desiderio non la emozionavano.

Poi lo notò.

Sistemato comodamente in una zona poco illuminata, sorrideva beffardo. Non era cambiato. I capelli erano castani e ricci. Indossava un abito raffinato, di buon taglio. Gli occhi non avevano perso la luce maliarda e, per un attimo, pensò nuovamente al gatto. Si avvicinò decisa e si accomodò davanti a lui, dicendo: “So di essere in ritardo. Mi dispiace.”

“Non fa niente” rispose, con voce profonda e sensuale.

“Sei qui da molto?”

“Non direi. Hai avuto problemi?”

“Be’, la pioggia mi infastidisce. Anche se dovrei essermi abituata. Mi ha rallentata, comunque. E le persone… per poco mi hanno distratta.”

“Vale lo stesso anche per me.”

Lui sorrise ancora e poi, per qualche secondo, ammirò la donna. Pure lei aveva capelli ricci; ma biondo cenere. La sua bellezza era pericolosa, resa più letale dagli occhi verdi e dalle labbra tumide. Come se non bastasse, l’abito nero e aderente che portava enfatizzava la perfezione del corpo.

“Ti rendi conto che i pochi uomini qui presenti ti stanno letteralmente sbavando addosso?” le domandò.

“E’ così sconvolgente?”

“No. Te lo chiedevo tanto per chiedere.”

“Presto si distrarranno.”

“Tu credi?”

“Ma sì… nelle prossime ore saremo solo due come tanti.”

“Non sono d’accordo. Possiamo essere molte cose. Ma non due come tanti.”

“Mi riferisco a loro. Al modo che hanno di concepire la realtà.”

Lui rimase a lungo in silenzio, riflettendo sulle ultime parole. Il fascino non era diminuito, nel corso degli anni. Era anzi aumentato. Se sono pericolosa, pensò, lui non è diverso; non devo dimenticarmelo; in fondo, giochiamo su campi avversi.

Alla fine, lui disse: “La realtà… è un’espressione che non significa nulla. Esistono tanti tipi di realtà. Lo sai quanto me.”

“Che vuoi dire?”

“Voglio dire che la realtà non è semplicemente quella che si vede ogni giorno: la banalità del quotidiano, i piccoli problemi, le difficoltà contingenti. Cose autentiche, intendiamoci. Ma non ci si può limitare solo a questo. Anche i pensieri degli spettri sono reali. O la sensibilità delle piante. O i deliri degli angeli. O dobbiamo forse rassegnarci a credere che è reale solo ciò che si vede al telegiornale? Ho conosciuto uno scrittore. Scrive molto bene. E gli editori lo considerano bravo. Ma pubblica con difficoltà. Perché, dicono, in quello che scrive non c’è realismo. Ma si sbagliano. Se solo allargassero la mente…”

“E’ un discorso che mi hai già fatto.”

“Davvero? Quando?”

“La volta scorsa.”

“Uhm… dove eravamo?”

“In un bar. Tanto per cambiare.”

“Era un sogno?”

“Fa differenza?”

“Non credo.”

Lui non fece in tempo a ragionare sulla labilità della memoria. Era la sua debolezza. In certi momenti, non riusciva a distinguere il ricordo dalla fantasia; il passato dal futuro. Le immagini nascevano spontanee nel cervello, riproducendosi come cellule impazzite. Alcune erano rimembranze. Altre fantasie. Altre ancora visioni future. Ma le riflessioni si interruppero non appena un ragazzo, sui sedici anni, si avvicinò. Un giovane cameriere dagli occhi castani, i lineamenti delicati, l’orecchino al lobo sinistro dell’orecchio. Portava una t-shirt nera e un paio di jeans sdruciti.

“Ordinate qualcosa?” chiese, sorridendo, e osservando, in particolare, la donna.

“Prendi un caffè?” le domandò lui.

“Meglio un cocktail” rispose lei. “Un Alexander.”

“Un Alexander” ripeté il ragazzo, come se nel nome si nascondesse un mistero intrigante.

“Ne voglio anch’io uno” disse l’uomo.

Il ragazzo annuì e si allontanò e lui, di nuovo con il sorriso malizioso, disse: “L’hai conquistato. Ma è troppo giovane per te.”

Stavolta anche lei sorrise. Aveva un debole per gli adolescenti. E disse: “Nessuno è mai troppo giovane.”

“Non ti scorderà facilmente. La sua mente è un pianeta alieno. Un mondo inesplorato. Ci sono tante emozioni in lui. Alcune, oserei dire, molto gustose.”

“Me lo immagino. Ma vale per tutti. Quando sono arrivata stasera… be’, lo shock emotivo è stato particolarmente forte.”

“E’ una città pericolosa. Ci sono stati diversi omicidi.”

“Ma…”

“Sì, so cosa stai per dire… gli uomini uccidono. Da secoli. Ma radio e televisione hanno creato tensione. Parlano di un serial killer e c’è la psicosi del maniaco che può colpire in qualsiasi istante. Possiamo considerarlo un fatto banale e risaputo… ed è evidente che è così… ma le persone sono fragili e, a volte, non si abituano alle brutture.”

“Sono convinta del contrario. Sentono parlare incessantemente di guerre, di stragi o di massacri etnici. Ogni giorno, alle otto di sera. Fa parte del palinsesto, ormai.”

“E’ diverso. I conflitti, con le loro brutali efferatezze, avvengono a chilometri di distanza. Ma quando, invece, la morte violenta si annida nel luogo in cui vivi… allora il pericolo, nella loro percezione, si fa più concreto. E non si sentono al sicuro. Io almeno la penso così.”

Lei non replicò, anche perché il ragazzo tornò con i cocktail. Dopo averli posati sul tavolo, disse: “Resto a disposizione.”

“Grazie” disse lui. “Ti chiameremo quando avremo bisogno.”

Il giovane se ne andò e i due assaggiarono l’Alexander. Il sapore era dolce e piacevole. Intanto, il vecchio vicino alla finestra li osservò per una frazione di secondo, come colpito da una subitanea intuizione. Poi ritornò a fissare l’esterno, davanti a sé una tazza di caffè fumante. Il barista li guardò a sua volta e poi si mise a parlare con i tre quarantenni.

“Sei arrabbiata?” le chiese lui.

“No, però questo incontro non mi entusiasma. Non fraintendermi… mi fa piacere vederti ma… mi sento una marionetta, capisci?”

“Certo che ti capisco. Ma sostanzialmente siamo burattini. Noi non decidiamo.”

“Ma perché?”

“Ho smesso di chiedermelo. È inutile tormentarsi.”

“Già… allora, dal momento che ci troviamo qua… tanto vale non indugiare. Chi inizia? Vuoi farlo tu?”

“Io? Va bene. La prima storia sarà mia.”

“D’accordo.”

“Ho accennato ai sentimenti degli spettri… è da questo che incomincerò… da qualche parte, c’è un’anima errante…”

 

1 – FANTASMA ERRANTE

 

Quando Lisa decise di ignorare il freddo, capì che era giunto il momento di agire. Crogiolarsi nel dolore era inutile. Ormai se ne era fatta una ragione. La vita (anche se il termine ‘vita’, nel suo caso, era di cattivo gusto) non sarebbe cambiata. E lui doveva pagare, in un modo o nell’altro. Si mise a camminare, quindi, osservando il mondo circostante come se fosse la prima volta. In un certo senso lo era. Vedeva Il quartiere con occhi differenti. Laggiù, ecco la casa di Simona, la sua amica del cuore, che le parlava di ragazzi, di Mirco, in particolare; Mirco dagli occhi azzurri e il sorriso sensuale. Più in fondo, il condominio che ben conosceva. All’ultimo piano abitava la zia Sara, sempre ansiosa, una vedova che onorava la memoria dello zio Paolo, morto in un incidente automobilistico. Adesso pensava al randagio, al piccolo Briciola trovato in un vicolo tempo fa. Lisa sentì una fitta di nostalgia. Quelle persone erano parte integrante della sua esistenza. E’ strano come tutto possa cambiare da un giorno all’altro.

Per colpa di un mascalzone.

Sì, era un quartiere tranquillo. Piuttosto squallido, con case grigie e anonime, strade umide (be’, non sempre, ora pioveva e ovviamente l’umidità dilagava) e gente poco interessante. Ma, per ciò che ne sapeva, il resto della città non era migliore. Il centro, poi, era un caos continuo di macchine e rumore. L’anno scorso aveva avuto una storiella di poco conto con Marco, uno della III° B, che abitava proprio nella zona centrale. Era stata anche a casa sua un pomeriggio. Aveva preso la metro e la folla l’aveva confusa. No, meglio questo quartiere, si disse; anche se non è vero che c’è tranquillità. In verità, non si trova da nessuna parte. Esiste solo l’orrore. Si nasconde in ogni dove e spunta fuori quando meno te l’aspetti. Non le era accaduto proprio questo?

Lisa passò davanti a un negozio di dischi. Diede un’occhiata alla vetrina e ai cd esposti. Sì, la musica le piaceva, anche se Marco la prendeva in giro, dicendo che i suoi gusti musicali non valevano nulla. Per un istante, si ricordò della festa di sei mesi fa, quella per il compleanno di Federica, un’amica. Qualcuno aveva messo un pezzo di Moby, uno triste ma che le piaceva tanto. Ritmato e malinconico. Lo ascoltava ogni volta che poteva. Avrebbe voluto ascoltarlo anche di notte, quando…

No. Basta. Non doveva tormentarsi. Era un’anima errante adesso. E c’era un lavoro da fare. Indipendentemente da tutto.

E vide uscire dal negozio una persona. La professoressa Mariani, che insegnava matematica. Era patita di musica classica e in mano aveva una busta con dentro un cd. Roba di Mozart, probabilmente, ipotizzò Lisa; oppure Beethoven. La Mariani li nominava spesso. E la donna sembrò notarla. Aprì la bocca, come se volesse emettere un suono indefinito, con gli occhi sbarrati, più per la sorpresa che per il timore. E, dal momento che la prof era sempre stata gentile, anche se lei odiava la matematica, si sentì in dovere di tranquillizzarla.

“Non abbia paura” sussurrò, con voce suadente. “Lei non è il mio obiettivo.”

La Mariani tremò e Lisa capì che non aveva sentito. Forse non l’aveva realmente vista, non per molto, almeno. Si allontanò e Lisa provò dispiacere.

 

Ore dopo, andò nella palestra della scuola. A dire il vero, diede prima un’occhiata alla sala dei professori. La Mariani parlava con un collega, quel palloso di Martini, il prof di diritto, un pallone gonfiato antipatico e calvo che tutti gli studenti detestavano, lei compresa. La Mariani beveva un caffè, con la mano tremante. Era bella. Una quarantenne alta ed elegante dai capelli corti e scuri e un viso piacevole. Non si era mai sposata, pensò Lisa, e si chiese per quale ragione. Volendo, avrebbe potuto seguirla, spiarla nell’intimità. Ma non sarebbe stato giusto.

“Che cos’hai?” le domandò Martini.

“Io… niente” rispose la Mariani.

“Ma sei preoccupata. L’abbiamo notato tutti oggi. Qualche ragazzino maleducato ti ha dato fastidio, per caso?”

“No. Credo solo di aver visto… qualcosa.”

“Cosa?”

“Nulla. Lascia perdere.”

Brava, approvò Lisa, ferma sulla soglia della porta. Mettilo al posto suo. Non ha nessun motivo di ficcare il naso negli affari altrui. Poi se ne andò, provando rimorso per la prof. Non voleva spaventarla. Non l’aveva fatto di proposito.

Perciò raggiunse la palestra e per poco non scoppiò a piangere. C’erano tutti. I suoi compagni e ragazzi e ragazze delle altre classi. Due squadre si erano sfidate a pallavolo. I giovani atleti giocavano con impegno e Lisa osservò con desiderio i loro corpi. Sugli spalti, notò Simona. Non sembrava felice. Accanto a lei c’era Mirco. Ogni tanto le parlava, toccandole delicatamente la mano. Stavano bene insieme. Lei con la frangetta scura e il trucco giusto. E lui… Dio, era più bello del solito. Era evidente che tra loro stava nascendo qualcosa. Forse era già nato. E Lisa sentì un brivido che non era di piacere. Intorno a lei, un concerto di urla, di brusii, di risate, le ricordò implacabilmente il passato. Lei non ne faceva più parte.

 

Seguì Simona e Mirco, dopo la scuola. Camminavano mano nella mano, proprio come una coppia. Non si accorsero della sua presenza. Ed ebbe modo di ascoltare la loro conversazione.

“Mi manca un casino” disse Simona e Lisa capì che si riferiva a lei.

“Anche tu mi manchi” sussurrò e per un attimo Simona e Mirco si girarono perplessi, come se avessero percepito un rumore inesistente, per poi concentrarsi di nuovo sul discorso.

“Sì, lo capisco” disse Mirco.

“Io non me ne faccio una ragione. Insomma… come possono succedere cose simili? E nessuno ne sa niente!”

“Stanno indagando, però.”

“E che scopriranno, secondo te? Te lo dico io. Un tubo. Quelli non sanno una mazza. Hanno persino detto che fatti del genere accadono in continuazione, prova a immaginartelo! Per loro è normale, roba da pazzi! D’altronde, mi sa che hanno persino ragione… basta sentire il notiziario… non fanno altro che parlare di quel serial killer e…”

“Simona, non ti tormentare.”

“Scusa.”

“Le volevi bene, lo so. Ma la vita continua.”

La vita continua, indubbiamente, pensò Lisa. E non poteva essere diversamente. Anche se mi fa male, si disse, cercando di trasmettere il pensiero a Simona, cerca di andare avanti, stai con Mirco, e pazienza se mi sarebbe piaciuto un sacco essere al tuo posto; non ti rovinare; non a causa mia; tu non c’entri, non sei tu che devi pagare.

Simona e Mirco si fermarono, interdetti. E Simona, insicura, guardando in tutte le direzioni, disse: “Ho freddo… come se un soffio di vento ci avesse sfiorati.”

“E’ vero” ammise Mirco.

 

E Lisa raggiunse casa sua. Non era cambiato nulla. A parte il fatto che mamma non rideva più. Preparava il pranzo, sola in cucina, simile a una condannata a morte. Con sgomento, si accorse che la ruga in fronte si era fatta più profonda. I capelli incominciavano a ingrigirsi. E gli occhi… avevano perso la luce. Spinta da un impulso irrefrenabile, Lisa la sfiorò, ma si ritrasse subito, temendo di sconvolgerla. Ma sua madre non se ne accorse. Continuò ad occuparsi dei fornelli, con gesti automatici, meccanici come quelli di un automa.

Mi dispiace, mamma, pensò Lisa, non è colpa mia; e neanche tua.

Lui non era arrivato. E Lisa andò nella camera da letto dei genitori. Sentì l’odore del padre, un aroma forte, la sua essenza. Poi entrò nella sua cameretta e scoprì che tutto era al solito posto. Tipico di mamma, concluse; questa stanza diventerà un santuario; nessuno potrà mai spostare uno spillo. I poster di Tiziano Ferro sui muri. I pupazzi di peluche posati su un tavolino. I quaderni. I libri di scuola. Il computer sulla scrivania e la stampante abbellita dagli adesivi. I suoi vestiti preferiti appesi nell’armadio. C’era ancora il diario sul comodino. Ci scriveva un sacco di fesserie (con il senno di poi, era di questo che si trattava) ma che allora le sembravano importanti. Quella vita non c’era più.

Guardò il letto. Il flusso dei ricordi la travolse e non fu in grado di respingerlo.

 

“Che ti piglia?” chiese la mamma a papà.

Cenavano in silenzio. La televisione non era accesa. Fino a poco tempo prima, papà a quell’ora vedeva sempre il telegiornale, con il volume molto alto, perché preferiva la voce dello speaker a quella della moglie o della figlia. Dal canto suo, le cene per Lisa erano una tortura. A stento fissava il genitore. Le sarebbe piaciuto stare un chilometro lontana da lui. E adesso, invece… il notiziario era diventato un fastidio. Ma la quiete era forse peggiore. Lo costringeva a riflettere sulla colpa. Bene, pensò Lisa, devi sentirti colpevole; io sono qui, a poca distanza da te, e non me ne andrò finché non avrò fatto ciò che devo.

“Niente” rispose suo padre.

“Ma non stai mangiando.”

“Non ho fame.”

“Però…”

“Senti, non scocciare. Non ho voglia di litigare.”

Gli occhi di suo padre erano terribili. Gioielli scuri di luce torbida. Quella luce che Lisa aveva recepito da tempo. Sì, era un bell’uomo. Solo esteriormente, però.

“Guarda che non sei l’unico che soffre” disse sua madre.

“Non credo.”

“E questo che vorrebbe dire?”

“Se proprio vuoi saperlo, voglio dire che te ne freghi, ecco. La criticavi in continuazione. La rimproveravi sempre. Non le dicevi mai niente di carino. Non sapevi capirla, questa è la verità. A differenza di me. Perciò falla finita.”

Se l’avesse colpita al cuore con un coltello, le avrebbe fatto meno male. Sua madre si alzò, nello sguardo un misto di disprezzo e di rimprovero, e, con voce rotta dal dolore, disse: “Avrei potuto aspettarmi di tutto… ma non una cosa del genere… hai il coraggio di parlare… tu che non sei stato nemmeno capace di proteggerla. È uscita di casa e tu non c’eri e…”

“Ma che cazzo dici, stupida???”

“Io…”

“Levati dalle palle, stronza! Lasciami in pace!”

Fu allora che sua madre uscì piangendo dalla sala da pranzo. E suo padre, tranquillamente, si mise a mangiare. Con molto appetito.

Bastardo, pensò Lisa, non ti smentisci mai; adesso la fai sentire responsabile; quando, in verità, l’unico da biasimare sei tu; è per questo che mi trovo qui; forse c’è un disegno e non lo comprendo; ma se sono un fantasma errante, c’è un motivo; e lo scoprirai a tue spese.

Furono pressappoco questi i suoi pensieri.

 

Succedeva di notte. Lui entrava in camera sua di nascosto. All’inizio era una bambina e non capiva. In certe occasioni, sembrava l’orco delle fiabe; in altre, una specie di principe, non azzurro, però, ma nero come il carbone. A volte pensava a ciò che accadeva come a una specie di sogno crudele. Forse era preferibile considerare la vita un mondo onirico e basta. Una serie di sogni che davano vita ad altri sogni. Mamma non deve sapere, le sussurrava, lento e convincente come un ipnotizzatore; papà vuole solo giocare con la sua bambina, la sua piccolina; papà sarà uno zuccherino, tesoro; non ti preoccupare…

Andò avanti… per quanto? Per parecchio tempo. Finché lei non capì. Era sbagliato. Terribilmente sbagliato. E quella sera lo respinse. Gli disse che era ora di finirla. Che non gli avrebbe più consentito di toccarla, di farle tutte quelle schifezze e… e lui si arrabbiò. Negli occhi la luce oscura esplose, in un riverbero di mille astri tenebrosi. Decise di uscire. Non che sapesse dove andare. Voleva semplicemente allontanarsi per un po’, non respirare il suo odore, non sentire il suo alito caldo da cane infoiato. Mamma era al lavoro, purtroppo, e non poteva difenderla. E fu imprudente perché disse, quando torna la metterò al corrente di tutto, e vedremo come te la cavi!

Sì, quello fu l’errore grave.

Perché lui perse la testa. Le strinse forte la gola. E poi… poi giunse il buio. E con il buio, il freddo.

Il freddo che ancora adesso la tormenta.

Dopo suo padre ritrovò la razionalità. E dimostrò di avere iniziativa. Prese il sacco di plastica, per esempio, e ce la mise dentro. Andò in garage e la sistemò nel bagagliaio della macchina. Quando poi mamma rincasò, affermò di essere tornato da poco e che non aveva trovato Lisa, che probabilmente era da un’amica e non bisognava preoccuparsi. In seguito, sul tardi, mamma iniziò ad agitarsi e lui disse che avrebbe fatto un giro nei paraggi, dando un’occhiata ai posti che era solita frequentare. Come avrebbe potuto sua madre sospettare? Pensare che l’uomo con cui aveva condiviso per anni il letto stava guidando verso una zona isolata, nei pressi del vecchio cementificio abbandonato? Là c’erano poche case e altrettanto poche persone. Fu lì che lasciò il cadavere, tra polvere, sudiciume e residui di cemento. Ebbe anche la prontezza di spirito di bruciare il sacco di plastica.

E la mattina la trovarono. E molti pensarono al serial killer che terrorizzava la città. E lei… lei si mise a camminare nel suo quartiere, consapevole di ciò che era accaduto, tormentata dal gelo. Non potevano vederla, se non forse a tratti, indistintamente, e solo in determinate situazioni. Era uno spettro. Uno spirito. Un fantasma errante.

Un fantasma errante che aveva una vendetta da compiere.

 

Forse era un sogno. Forse era reale. O forse realtà e delirio si erano amalgamati in un connubio incestuoso. Non le importava. Era vicina a suo padre ora. Seduto sulla poltrona, mezzo ubriaco (si era fatto tre birre mentre la mamma era a letto, ancora sconvolta dalle parole malvagie), osservava le cose senza vederle veramente, gli occhi annebbiati dall’alcol. Era il momento di agire, pensò Lisa.

“Sei tranquillo, vero?” gli chiese.

E stavolta, forse a causa del bere, o forse perché la sua volontà di spettro era forte, lui la sentì e, in modo intermittente, la vide. Il terrore che Lisa notò nei suoi occhi fu gratificante.

“Sono tornata, papà.”

“Cosa?”

“Non vuoi giocare?”

E lui si alzò, barcollando, e cercò di allontanarsi da… da qualsiasi cosa stesse vedendo in quel momento.

“La tua piccolina vuole divertirsi.”

“No!”

Indietreggiò, senza pensare alla finestra alle sue spalle. Sarebbe semplice, pensò Lisa; basterebbe una lieve spinta; ma non sono in grado di toccare alcunché. Tuttavia, si fece avanti, dicendo: “Voglio solo amarti, papà… era quello che volevi… tu mi amavi, è così che dicevi…”

Suo padre gridò. Fece un altro passo indietro, colpendo il vetro che si infranse provocando un concerto di mille suoni stridenti, accompagnati dalle urla. Lisa non volle vedere il resto. Non le interessava ammirare il corpo del padre sfracellato sull’asfalto, in una pozza di sangue. Meno che mai assistere alla crisi isterica della madre. Presto tornerò da lei, decise, e cercherò di tranquillizzarla, troverò il modo, ne sono sicura. Per adesso, il compito è stato eseguito.

E, da quel momento, un fantasma errante si aggira per le strade del quartiere. Ogni tanto fa visita all’amica del cuore e al suo fidanzatino, giusto per salutarli con affetto, anche se non ne sono consapevoli; oppure sfiora altri amici, o conoscenti; la professoressa di matematica che l’aveva intravista; e naturalmente la madre. Quando pensano a lei, la considerano una creatura di sogno, impalpabile come le fantasticherie provocate dal fumo, e non come uno spettro dotato di sentimenti. Per loro, la prima versione è più facile; e senza dubbio più rassicurante.

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